Il termine “BRIC” venne coniato nel 2001 dall’economista Jim O’Neill, che lo usò per identificare paesi emergenti con simili caratteristiche. Brasile, Russia, India e Cina vennero identificati come economie in forte crescita che potrebbero superare quelle occidentali entro il 2050 secondo Goldman Sachs.
I primi ministri di questi quattro paesi si incontrarono, su richiesta del ministro degli esteri russo Lavrov, personalmente dal 2006, durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, al fine di iniziare una nuova collaborazione.
L’ acronimo identificò poi il Forum del 2009 che coinvolse i capi di stato dei quattro paesi. Nel 2010 anche la Repubblica Sudafricana prese parte al Forum e questo venne rinominato “BRICS”.
La nascita di questa nuova associazione si contrapponeva a quelle fino ad allora capeggiate dai paesi occidentali. I BRICS si contrappongono al G7, mentre la Nuova Banca di Sviluppo dal 2016 si contrappone al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale.
Nel 2014, l’unione di queste nazioni corrispondeva al 42% della popolazione globale e al 22% del PIL mondiale. Nel 2022, invece, i BRICS contribuirono per il 31,5% del PIL, rispetto al 30,3% dei paesi del G7 che ospitavano solo un quarto della popolazione rispetto ai BRICS.
La Cina è il caposaldo dell’alleanza. Da sola è una potenza economica che preoccupa gli USA.
La Cina possiede ancora il 10% del debito estero statunitense. È il più grande esportatore di terre rare (quando USA, Giappone, Francia e Germania ne sono i principali importatori) con una produzione che corrisponde al 60% di quella mondiale. Inoltre, il paese di Xi Jimping è apprezzato anche per l’esportazione di prodotti a basso costo specialmente verso i paesi del terzo mondo e in quelli in via di sviluppo.
Grazie alla sua politica economico-militare, la Cina si è “infiltrata” legalmente ovunque le facesse comodo: dall’Africa all’Europa, la Cina acquista e/o sovvenziona aziende e territori di rilevanza strategica.
La Russia dall’inizio del nuovo millennio si è preoccupata di risolvere situazioni intestine problematiche risalenti agli anni post-perestrojka. Dal 2010, in particolare, ha attuato diverse iniziative per riguadagnare importanza sullo scacchiere internazionale. Non ultima la guerra in Ucraina. Guerra che sembra deteriorare economicamente di più i paesi europei, rispetto alla Russia stessa, oltre ad aver esaltato la figura del presidente russo Putin agli occhi di diversi paesi del secondo e terzo mondo.
La Russia, come Brasile e Sud Africa, è uno dei principali esportatori di materie prima al mondo. Grazie alle immense riserve naturali presenti sul territorio, la Russia è la prima esportatrice di petrolio (prima ancora dell’Arabia Saudita), di carbone e oro.
Similmente alla Cina, anche la Russia ha cercato di estendere il suo controllo. Ad esempio, per conto della Russia, l’agenzia militare privata Wagner opera in diversi paesi africani (esportatori di risorse verso i paesi europei).
L’India, oltre all’essere un altro importante paese esportatore di materie prime (come i diamanti), è anche una delle principali nazioni dove si realizzano materialmente i prodotti per conto delle aziende occidentali.
La delocalizzazione prevede che le aziende occidentali aprano fabbriche in paesi dove la manodopera costi meno rispetto ai paesi dove ha sede legale l’azienda. In particolare, l’India è molto produttiva nel settore tecnologico, come il mercato degli smartphone.
Alla produzione di tecnologie, l’India affianca sviluppatori di software affermati in molte delle big tech occidentali.
I BRICS, al contrario delle organizzazioni sovrannazionali occidentali, non sono restii a permettere ad altri paesi di aderire alla loro associazione. Di 22 richieste ricevute nell’agosto del 2023, già cinque paesi sono entrati ufficialmente nei “BRICS+” (o BRICS Plus) : Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran. I “BRICS+” ora rappresentano il 45,5% della popolazione mondiale e determinano il 28,5% del PIL globale. Inoltre, l’esportazione complessiva di petrolio e derivati ammonta al 40% del totale mondiale.
Grazie a questa rilevanza, i BRICS+ potrebbero deteriorare ulteriormente l’importanza del dollaro negli scambi commerciali internazionali e nelle transazioni sul mercato dei cambi. La “de-dollarizzazione” ha fatto parlare a lungo di sé, complice le crisi interne agli Stati Uniti e la situazione mondiale poco rosea a seguito delle crisi economiche seguite alla pandemia di Covid-19 e alla guerra in Ucraina.
Come la zona euro e la Fed, i paesi BRICS stanno tutti valutando l’adozione di valute digitali, oltre un sistema di scambi che sleghi questi paesi da Swift. Cina, Thailandia, Hong Kong e Emirati Arabi Uniti hanno già sviluppato una piattaforma bancaria interna. Se un sistema analogo venisse adottato da tutti i paesi BRICS+, tutte le valute dei paesi membri potrebbero essere usate negli scambi tra i membri, lasciando l’uso del dollaro agli scambi con le altre nazioni.
La Cina ha, comunque, proposto l’introduzione di una valuta unica per gli scambi, lo stesso Yuan cinese.
I BRICS+ stanno acquisendo sempre più rilevanza politica. Se tutti i paesi richiedenti venissero ammessi nei BRICS+, anche le discussioni durante incontri internazionali, come quello del G20, potrebbero pendere verso le loro posizioni. Tutto a patto che i membri dell’organizzazione dei paesi in via di sviluppo trovino una quadra.
Al momento, gli obiettivi comuni per i BRICS+ sono di natura fiscale, doganale e bancaria, oltre una generale volontà nell’incrementare la loro rilevanza politica.
La rilevanza politica può essere facilmente ottenuta grazie alla disponibilità di risorse, come materie prime, manodopera e fonti per l’approvvigionamento energetico.
Nonostante la mancanza di un’alleanza militare omogenea, come lo è la NATO per i paesi occidentali, Russia e Cina dimostrano le loro capacità tecnologico-tattiche anche in teatri reali. La Cina preme sempre di più nella zona indo-pacifica, la Russia punta alle rotte polari e congiuntamente il loro controllo sugli sbocchi marittimi/oceanici, essenziali per il commercio, vale la preoccupazione occidentale.