Il nuovo conflitto israelo-palestinese è scoppiato a seguito dell’attacco di Hamas sabato 7 ottobre.
Gli accordi di Oslo e Oslo 2, tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, sono andati scemando nel nuovo millennio. Nonostante l’istituzione dell’Autorità Nazionale della Palestina con la finalità di autogovernare, in maniera limitata, parti della Cisgiordania e la Striscia di Gaza; il conflitto israelo-palestinese si è sempre più ravvivato.
A dispetto delle guerre israelo-arabe del secolo scorso, questo nuovo scontro si rifà più alle guerre al terrorismo condotte, in particolare, dagli Stati Uniti verso alcuni stati mediorientali. Israele non combatte più contro veri e propri stati riconosciuti dal diritto internazionale: oggi le Forze di Difesa Israeliane conducono missioni oltre quelli che sono confini sempre meno definiti tra lo stato ebraico e il mancato “stato palestinese”.
Hamas, il “Movimento della Resistenza Islamica”, è nato come movimento politico alla fine degli anni ottanta del novecento.
La flangia armata del movimento si è distinta per i suoi attacchi suicidi, e non, a fini terroristici. Tutto per un unico obiettivo: la liberazione della Palestina dagli ebrei per attuare la fondazione di uno Stato islamico effettivo.
Nel 2006, Hamas ottenne la vittoria alle elezioni per l’ANP. Nel 2007, con la battaglia di Gaza, Hamas si è impadronita del territorio che separa Israele, a Nord, e la penisola del Sinai in Egitto, a Sud. Questi risultati vennero ottenuti da Hamas grazie al sostegno dei palestinesi che, da Hamas, ottennero rilievo mediatico per la loro situazione, aiuti e proselitismo.
Dopo diversi anni di scontro, nel 2017, Hamas accettò di ridurre le tensioni: venne sciolto l’esecutivo del movimento e vennero accettate le condizioni dell’ANP.
Dal 2021 Hamas ha alternato periodi di tregua a aggressioni verso Israele come rappresaglia per il trattamento che Israele riservava a cittadini palestinesi nelle sue città.
Hamas è oggi operante principalmente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza (dove detiene il controllo).
La sua condotta ha fatto ricadere Hamas (in particolare la sua ala paramilitare) tra le organizzazioni terroristiche riconosciute da diversi stati, come l’UE, l’Organizzazione degli Stati Americani, gli USA, il Canada, il Giappone, l’Australia e il Regno Unito.
La nuova strategia di Hamas è differente da quella usata fino al 2023. Il rapimento massivo di civili israeliani, la coordinazione di differenti operazioni e la rapidità nell’agire hanno lasciato Israele indifesa per il tempo necessario al completamento del piano.
Queste nuove qualità di Hamas hanno fatto sospettare il sostegno attivo di Iran, in primis, e di diverse Ong. L’Iran ha sostenuto sui social network l’operato di Hamas, ma, successivamente alle accuse perpetrate dagli stati occidentali, Teheran si è dichiarata estranea alla compartecipazione nell’attacco.
Viene imputato anche ad Hezbollah, altro movimento politico e paramilitare estremista del Libano, di aver sostenuto Hamas nello scontro.
Bisogna ricordare che Hamas segue la corrente sunnita dell’Islam, mentre Iran ed Hezbollah fanno riferimento alla minoranza dello sciismo.
Ufficialmente diversi paesi del Medio Oriente si sono dimostrati disponibili al dialogo per risolvere gli attriti tra Hamas e Israele. Alcuni di questi hanno storicamente combattuto Israele o si sono opposti in vari modi allo stato ebraico. Recentemente, però, molti stati arabi hanno preferito stringere alleanze con gli ebrei, piuttosto che iterare scontri infruttuosi. Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan, con gli Accordi di Abramo mediati dalla presidenza Trump, hanno riappacificato i rapporti con Israele.
La Siria, nei primi anni del 2000, ha provato a concludere accordi ufficiali, ma le pressioni statunitensi su Israele hanno fatto sì che Damasco ritirasse l’offerta dopo la battaglia di Gaza.
L’Egitto, dalla disfatta della guerra del Kippur, ha deciso di intraprendere azioni di cooperazione con lo stato ebraico iniziando dal trattato di pace del 1979. Successivamente, anche la Giordania firmò un trattato di pace con Israele.
Date le premesse, è normale che molti considerino il Medio Oriente come una “polveriera pronta ad esplodere”.
Lo stesso si è detto per tutto il 2022 dell’Est Europa. Dopo l’unità che il Patto di Varsavia aveva dato alle regioni balcanica e orientale dell’Europa, la dissoluzione dell’URSS e la conseguente crisi hanno ricreato l’instabilità. Pochi in Occidente si erano accorti di quanto la situazione fosse grave prima dello scoppio della guerra in Ucraina; e, in pochi giorni, la politica statunitense si è focalizzata su Kiev come nuova crisi globale, dopo la pandemia da SARS-CoV-2.
Dopo mesi, la guerra in Ucraina ha assuefatto e saturato l’audience pro-NATO, a tal punto da creare anche polemiche e opposizioni negli stati i cui governi supportano maggiormente l’Ucraina.
Questo conflitto ha sollevato ulteriori diatribe e rancori tra le nazioni. Ad esempio, diversi paesi dell’Est Europa ora rifiutano di aiutare ulteriormente l’Ucraina o di accettare accordi e aderire a pacchetti di sanzioni a scapito del corretto sviluppo delle economie nazionali. Ungheria e Polonia sono tra le principali voci che si oppongono al controllo statunitense per la politica estera. In particolare la Polonia è una preziosa alleata (risorsa) per gli USA in funzione anti-russa che, sicuramente, non la vogliono perdere favorendo l’Ucraina.
Una situazione così delicata e in crisi deve essere sfogata o sostituita ed accantonata.
La paura di Kiev è proprio che il numero di investitori filo-ucraini diminuisca. Investitori che hanno più da perdere se la situazione israeliana dovesse degenerare; mentre una battuta d’arresto nella situazione Ucraina non comporterebbe perdite così significative.
Lo spauracchio della crisi petrolifera del 1973 è ancora vivo.
Il rincaro dei prezzi, dovuto alla diminuzione e alle difficoltà nell’approvvigionamento delle fonti energetiche in Europa, ha già sortito colpi innegabili. Nonostante ciò, gli USA non ne hanno sofferto particolarmente e, anzi, hanno acquisito nuovi mercati. Alcuni paesi europei, come l’Italia, si sono affidati ai rifornimenti statunitensi ben più esosi delle forniture che giungevano da Oriente.
Dopo la guerra del Kippur del 1973, però, anche gli Stati Uniti d’America subirono un vero e proprio embargo da parte di stati arabi aderenti all’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio per la fornitura di petrolio. Questa azione venne intrapresa come sostegno a Egitto e Siria uscite sconfitte dalla guerra e decretò una crisi economica profonda fino alla fine degli anni ’70.
Dato che paesi europei e Stati Uniti dipendono sempre più dall’OPEC, per sfuggire al “ricatto energetico russo” unidirezionale, la possibilità di un nuovo shock petrolifero condannerebbe tutta l’economia occidentale: ridurrebbe le esportazioni e le importazioni, a seguito dei danni economici accusati dalle aziende; bloccherebbe i commerci nazionali e quello internazionale, per mancanza di combustibili derivanti dalla raffinazione petrol-chimica; incrementerebbe ulteriormente il caro vita; lascerebbe parte della popolazione europea senza sistemi di riscaldamento.