L’uso degli smartphone e dei social network è la rivoluzione che più ha modificato la nostra visione del mondo e le relazioni interpersonali. La possibilità di registrare, sia audio che video, scrivere e condividere tutto quello che vogliamo è diventata una chimera.
Prima le informazioni si ottenevano dai giornali, dalla radio, dai telegiornali e dai giornali online. Oggi è diverso. Sappiamo, per esempio, che la propaganda e la verità sfruttano gli stessi canali. Distinguerle è diventato difficoltoso e spesso macchinoso.
Scovare informazioni veritiere tra le bugie è ostico per tutti. A quanto pare, anche per gli addetti ai lavori. Ricordiamo, per esempio, le registrazioni di scene videoludiche spacciate per reportage di guerra allo scoppio della guerra in Ucraina.
Non fosse abbastanza, anche le autorità dell’informazione modellano la “narrazione”. Un caso eclatante, che si trascina fino ad oggi, fu la pubblicazione di materiale riservato su WikiLeaks.
Bloccato per poi essere riaperto, il sito web condivide ancora, però più nessuno ne parla con interesse. In pochi ancora parlano del caso Assange e dell’ipocrisia alla quale è sottoposto.
Recentemente, invece, fa parlare di sé la nuova regolamentazione europea: il Digital Service Act.
Una regolamentazione atta a prevenire la “disinformazione”.
La fiducia che l’Unione Europea richiede riguardo queste regole è paragonabile alla fede per un credente. Gli articoli, infatti, non danno una definizione esatta di cosa sia o di cosa non sia la disinformazione, né esempi concreti per far capire come le informazioni possano essere vagliate. Si rischia di sfociare in un controllo capillare su tutte le fonti di informazione.
Durante la guerra tra Kiev e Mosca, abbiamo visto gli schieramenti sfruttare disinformazione e propaganda. Il governo di Zelensky ha bloccato l’opposizione. Opposizione alle volte discutibile, che però non meritava un blocco immediato e ingiustificato (contrario allo stile democratico statunitense). Non dimentichiamo che anche in Ucraina gli oppositori mediatici sono stati spesso arrestati e alle volte sono scomparsi.
Le retrovie del sostegno all’Ucraina (UE, USA, Canada, …) hanno bloccato gli account dei media russi. Questo prima che la Russia bloccasse i social network del mondo libero, unificando l’informazione.
Persino singole figure pubbliche sono state sottoposte alla cernita dei mass media. Ricordiamo Alessandro Orsini e Giorgio Bianchi.
Si parla di “social war”.
Sostanzialmente, quella sull’informazione, è una gara di velocità: la qualità è secondaria, basta arrivare nelle prime posizioni.
Ne è rimasto vittima l’uranio impoverito, seguito dai munizionamenti a grappolo, poi le risorse a disposizione sia dei russi sia degli ucraini, così come le perdite dei due schieramenti.
Molti reporter oggi usano vie indipendenti per condividere i loro reportage e le loro prove dal fronte.
Telegram, criticato più volte per la reticenza ai controlli di terze parti, è una di queste vie.
Persino Zelensky e Prigožin ne hanno fatto/fanno uso per condividere certi contenuti e non essere bloccati su altre piattaforme.
Né il segreto militare né quello industriale possono impedire la condivisione di un video sui social.
Anche se l’originale venisse cancellato, c’è la possibilità che qualcuno abbia copiato il file. È quello che spesso anche i genitori ammoniscono ai figli sull’uso di questi sistemi. Allo stesso modo, svelare la propria posizione al nemico condividendo la vita “in trincea” potrebbe rivelarsi pericoloso.
Eppure, grazie ai dispositivi che teniamo in tasca e alle reti informatiche, è possibile ottenere informazioni con prove da qualsiasi parte del mondo. Fino a un paio di decenni fa, l’informazione anche divulgativa apparteneva a testate specializzate e ai documentari. Oggi si possono trovare video amatoriali per ogni ambito.
Lo stesso sta accadendo con i fronti di guerra e le crisi internazionali. I filmati da parte di chi vive in diretta gli eventi vengono ritrasmessi lungo tutto il pianeta.
Grazie anche a queste documentazioni, gli analisti possono trarre notizie ed informazioni in tempo reale, anche in contesti proibitivi, senza dover viaggiare. Si possono ricevere immagini di una rivolta in un paese in un altro continente, come è il Niger.
È possibile verificare la correttezza di una fonte da un video “postato” su Internet. Ne è un esempio l’invio di alcuni armamenti sul fronte ucraino.
Sarebbe anche possibile costruire database interi relativi ad un solo argomento, studiarlo tramite uso dell’IA e capirne i risvolti grazie alla visione di queste testimonianze.
Come tutto, in questa società, anche l’informazione si è fatta più rapida, forse più smart.
Tutto ha però un prezzo. Questo prezzo è pagato dai fruitori: tenere tutto a mente è impossibile e la quantità di aggiornamenti è in costante aumento. Un cittadino comune non ha certamente la voglia di spendere ore seguendo l’informazione, né di confrontare fonti di schieramenti opposti. Si torna dal lavoro dopo 8 ore minime di fatica e l’ultimo pensiero è l’andare a verificare un’informazione di un qualsiasi notiziario.
Ciò compromette l’evolversi della comunità e della politica. Una società che fa sempre più affidamento a degli specialisti è sempre più esclusa da ciò che la riguarda. Settorializzare troppo un campo impedisce la consapevolezza. I “factcheckers” sono utili, ma richiedono anch’essi fiducia. Nessuno è infallibile e nessuno è immune dall’essere comprato o obbligato.
Persino in Europa sappiamo fin troppo bene cosa accade quando pochi hanno potere decisionale e le masse lasciano liberi di agire i propri eroi, idoli o rappresentanti.
Se un tempo il servitore della gleba partecipava alla rivolta che soverchiava il governo zarista, oggi è persino difficile che le persone sappiano quali regole sono cambiate per il codice della strada. Il contadino non aveva uno smartphone, eppure “conosceva” la corrente filosofica che avrebbe rivoluzionato il 1900. Allo stesso modo, l’utente che oggi legge i giornali online e guarda i telegiornali si trova a doversi preoccupare di una guerra di confine come già ce ne sono state.